Dopo dieci anni dalla posa della prima pietra, dopo tante fatiche e ritardi nella costruzione,  il 12 aprile del 1971 alla presenza dell’arcivescovo di allora mons. Giovanni Colombo, del parroco don Giulio Magni, del coadiutore don Gianfranco Meana, di alcuni preti nativi e del decanato, del sindaco di allora dott. Lucchini e soprattutto della gente di Pogliano qui convenuta, si apriva al culto questa nuova chiesa parrocchiale.

Oggi siamo qui a 50 anni esatti di distanza a ricordare e celebrare questa memoria. Tanti che sono qui oggi erano qui allora. Tanti che c’erano allora e oggi non ci sono guardano giù dal cielo e partecipano a questa nostra Messa insieme con noi. Siamo qui innanzitutto a pregare. A pregare e ad essere riconoscenti a Dio per quei preti e il vescovo che ho ricordato, per le reverende suore che erano anch’esse presenti e hanno dato tanto alla nostra comunità. Preghiamo e ricordiamo tutti i benefattori vivi e defunti perché senza di loro, senza la decima che toglievano dal loro stipendio di quegli anni per darla come offerta per la chiesa nuova, non si sarebbe potuta compiere quest’opera.

Preghiamo per i preti che dopo don Giulio hanno edificato spiritualmente questa chiesa: don Luigi Villa, don Mario Gonti e tutti i preti dell’oratorio dopo don Achille: don Gianfranco, don Alfonso, don Arnaldo, don Enrico, don Luigi, don Raffaele fino al nostro don Simone. Preghiamo per i preti nativi e le suore che questo popolo di Dio, con la sua fede e sotto l’azione della grazia di Dio, ha generato. Mettere mano all’opera di costruire una nuova chiesa è stata un’opera davvero grande, impegnativa sotto tutti i punti di vista, che consuma tanto tempo nel pensare, nell’organizzare, nel raccogliere fondi. Don Giulio si era consumato in tutto questo, tanto che dopo pochi mesi da quel 12 aprile ’71 il Signore lo chiamava a sé, consumato dal servizio apostolico dopo 36 anni di parroco a Pogliano. Mi viene in mente un po’ la figura di Mosè nell’Antico Testamento che conduce il popolo eletto fuori dall’Egitto, camminando 40 anni nel deserto, ma non ce la fa ad entrare nella Terra Promessa, la vede solo da lontano e muore poco prima, lasciando a Giosuè l’ultimo tratto di cammino. Don Giulio ha avuto la grazia di esserci per fortuna all’inaugurazione e lo vediamo nelle foto di allora, contento, radioso, nel mostrare la nuova chiesa all’arcivescovo.

Ma la nostra Eucaristia del 50° dell’apertura della chiesa nuova non può essere solo uno sfogliare l’album dei ricordi. Siamo qui a pregare tutti insieme e a chiedere a Dio la grazia, la passione, di continuare ad essere la Chiesa voluta e pensata da Gesù Cristo. E lo facciamo tutti insieme dal più piccolo al più grande. Dall’ultimo dei battezzati (ieri pomeriggio) al più anziano. Sentirci popolo in cammino guidato da Dio e dallo Spirito di Gesù Risorto. Ecco allora che le letture vogliono aiutarci a ritrovare l’essenza, il significato dell’essere chiesa, allora come oggi. La prima lettura ci ha riportato alla chiesa degli inizi, la chiesa dei primi credenti, che mettevano al centro del loro sentirsi chiesa l’ascolto della Parola di Dio, l’eucaristia e la vita di carità. Quando parliamo di chiesa tanta volte ci si disperde in tante discussioni: “Bisogna fare così, puntare su questo, su quest’altro…”. Il libro degli Atti ci ricorda che i primi cristiani in mezzo a difficoltà più grandi delle nostre (c’erano tante persecuzioni e professare la fede era anche a rischio della vita) formavano la chiesa e la edificavano perché erano assidui nell’ascoltare la Parola di Dio e l’insegnamento degli apostoli, spezzavano il pane celebrando bene l’eucaristia, mettevano in comune i beni perché chi era in difficoltà potesse vivere dignitosamente. Se vogliamo continuare ad essere la chiesa di Gesù dovremmo davvero puntare su queste cose che danno il tono poi a tutto il resto. E così anche verificarci: quanto e come ascolto la Parola di Dio, quanto e come vivo l’eucaristia, quanto e come vivo la vita di carità e la vicinanza ai poveri.

S. Pietro nella seconda lettura con l’immagine delle pietre vive ci ha ricordato che la chiesa nuova allora e oggi si edifica con l’impegno di tutti i battezzati, nessuno escluso. Si fa in fretta a delegare: “Tocca il prete, tocca al Vescovo, tocca alla Caritas…”. Sì ci sono delle responsabilità e delle gerarchie, ma la chiesa siamo tutti noi. Impariamo a dire: “Tocca a me, tocca a noi”. Tocca a ciascuno di noi partecipare bene alla Messa, tocca a ciascuno di noi far continuare l’opera dei nostri oratori, tocca a ciascuno di noi vivere la vicinanza alle nuove povertà. Tocca a noi vivere la responsabilità civile che rispetta le regole e le fa rispettare agli altri sapendo anche correggere se necessario, sentendoci parte di una comunità che vuole crescere e migliorare sempre. Essere pietre vive e non morte, fredde e distaccate, che pretendono dagli altri ma fanno fatica a donare agli altri. E poi il Vangelo. E qui possiamo contemplare ancora una volta l’amore grande di Gesù per i suoi e per Pietro in particolare. “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”. Gesù che scommette su Pietro, che gli affida il compito di continuare l’opera di Gesù. Pietro con la sua fede, con le sue incertezze, i rinnegamenti che emergeranno nell’ora dell’arresto di Gesù, ma anche la sua corsa al sepolcro dopo la risurrezione, Pietro è amato nonostante tutto, ed è incaricato di una missione, non per i suoi meriti, ma solo per grazia di Dio e sarà chiamato a vivere la sua vocazione fino al sacrificio della vita, come Gesù.

Carissimi oggi spegniamo 50 candeline per la nostra chiesa parrocchiale. Anche dopo 50 anni continuiamo anche nel gergo normale a chiamarla “chiesa nuova”. Penso che sia bello tenere questo termine anche per la comodità di identificarla ma è anche impegnativo. Dovremmo sempre mostrarlo con la vita che siamo chiesa nuova, chiesa nuova perché edificata continuamente dalla Pasqua di Cristo celebrata ogni domenica, chiesa nuova perché capace di introdurre le nuove generazioni all’esperienza della fede, chiesa nuova perché sa stare vicino alle vecchie e nuove povertà e cercare di risanarle, chiesa nuova perché sa incarnare sempre di nuovo il Vangelo in ogni ambito della vita: quello della famiglia, della scuola, dello sport, della politica, del lavoro e ogni altro ambito in cui l’uomo e la donna vivono ogni loro relazione quotidiana. Chiesa nuova perché dobbiamo sempre abbellirla nelle suppellettili e nell’arredo liturgico. 

Saremo chiesa nuova se vivremo in particolare quell’essere pietre vive a cui ci ha richiamato S. Pietro nella seconda lettura. Chiesa nuova è anche inserirsi nella novità di prospettiva che Papa Francesco ci indica quando ci esorta ad essere chiesa in uscita, capace di vivere i problemi di questo tempo non come ostacoli ma come sfide a cui appassionarsi, come quando invita i giovani in particolare a non guardare la vita dal balcone ma ad immergersi e a dare il proprio contributo con scelte di vita significative e ad ascoltare la voce di Dio che ancora chiama a diventare preti, religiosi e religiose per edificare la chiesa nel mondo. Carissimi preghiamo oggi per il dono di nuove vocazioni. Tra poco il nostro seminarista Gianluca finirà il suo percorso di preparazione al sacerdozio occorre pregare perché qualcun altro entri al suo posto. Ma anche che qualche ragazza inizi il percorso per diventare religiosa in qualche congregazione. Preghiamo ancora per le nostre famiglie, per chi amministra il paese, per chi si spende per gli altri nelle tante forme di volontariato che esistono a Pogliano. Papa Francesco nel suo discorso sulla chiesa italiana a Firenze nel 2015 diceva: “Mi piace una chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa chiesa, credete in essa, innovate con libertà”. Sogniamo anche noi una Chiesa così, perché è questo che il Signore ci sta chiedendo di essere anche qui a Pogliano.

Don Andrea

Pogliano Milanese, 12 aprile 2021
 
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