«Spiegare cosa sia la giustizia riparativa che descrive anche il grado di civiltà di un Paese». È stato questo lo spirito con cui si è svolta l’affollata Tavola rotonda “Giustizia e con-dono” che, parafrasando il titolo del Festival della Missione, “Vivere per-dono” ha visto dialogare la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, il criminologo dell’Università Bicocca e studioso a livello internazionale della materia, Adolfo Ceretti e suor Nelly Leòn, della Congregazione di Nostra Signora della Carità del Buon Pastore, primo cappellano donna del carcere di Santiago del Cile. Un confronto, moderato dal giornalista e già direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, a tratti suggestivo e commovente per le testimonianze dei cammini di riparazione del male intrapresi da singoli e associazioni e che ha visto il coinvolgimento di un pubblico, seppure non specializzato, attento e partecipe.
«Segno» che questi temi stanno entrando nel pensiero diffuso della gente, come ha detto Cartabia che ha ricordato «come uno dei capitoli più innovativi delle riforme che ci eravamo prefissi nel governo Draghi – il cui percorso si è concluso il 28 settembre – sia stato proprio relativo alla giustizia riparativa».

Rimettere al centro la persona

«La giustizia penale evoca una punizione e il carcere, in epoca contemporanea, come risposta dello Stato di fronte a chi minaccia la sicurezza e la tranquillità delle suoi cittadini. La riforma che abbiamo compiuto, da un lato vuole diversificare la pena: ovviamente non sostituisce la giustizia penale, ma si sviluppa parallelamente ad essa». Una sorta di «secondo ramo» nato dalla possibilità di realizzare «cammini e incontri in cui la vittima guardi negli occhi l’autore del reato, generando una capacità ricostruttiva. È una strada che può essere accettata liberamente solo se entrambe le parti acconsentono», come è ovvio. Se «ciò che accade può solo essere testimoniato e non spiegato», secondo quanto aggiunge la Guardasigilli, il video che racconta 2 di tali esperienze fa comprendere cosa sia in concreto la giustizia riparativa meglio di tante parole, perché quelle brevi di Albine Griffith, una donna irlandese che ha subito una violenza sessuale e di Manlio Milani, che ha perso la moglie nella strage di piazza della Loggia, dicono tutto di un «riconoscerci uno con l’altro, narrando la violenza per fare capire che altre strade sono possibili».

«Mi sono domandata che cosa potesse spingere una donna a incontrare chi porta la violenza più inaccettabile al corpo femminile», confida Cartabia. «Non è un rapporto con il violatore, non è una riconciliazione, ma le ha tolto la paura, le ha reso la possibilità di avere fiducia in se stessa, di poter uscire la sera. La riparativa è una giustizia che porta a essere protagonista anche qualcuno che non lo è nella nostra giustizia penale: la vittima». E quanto sia vero tutto questo lo si percepisce ancora di più e meglio nella scelta di Milani, che, «spingendo chi ha commesso reato a guardare negli occhi chi ha sofferto la perdita di una persona cara, ha portato all’aggregarsi di tante persone negli stessi cammini, perché tutti possiamo andare oltre, con la maturazione di una mentalità diversa». «Si tratta di aprire una finestra, di suscitare un interesse per una giustizia che vuole mettere al centro la persona. La vittima naturalmente, perché il reato non è soltanto la violazione di una norma, ma sempre di una persona, come persona è anche il colpevole», conclude la Ministra.

Superare il male e ciò che lascia è possibile

Concorde, su questo, Adolfo Ceretti che sottolinea «la tenacia con la quale si è proceduto da parte di tutti per approvare in tempo la riforma e portarla in Parlamento, lavorando giorno e notte». Con la consapevolezza, suggerita da vicende come quelle di Milani – «il mahatma Manlio», come lo chiama Ceretti – e da un percorso compiuto, con le vittime e i colpevoli del terrorismo, dal criminologo insieme alla docente della “Cattolica” Claudia Mazzucato e al gesuita padre Guido Bertagna e che ha prodotto anche un saggio straordinario, “Il libro dell’incontro”. «Se nella giustizia riusciamo a introdurre dei luoghi dove il soliloquio di vittime e responsabili crei le basi del dialogo, le parole del male, sulle quali noi mediatori lavoriamo, possono essere trasformate, non sono più quelle gelide dei penalisti, ma restituiscono il conflitto alle parti in causa, con una consensualità che nasce dal loro avvicinamento.

L’aver incontrato un “noi” non toglie la differenza, ma solo trovando uno spazio per autonarrarsi e per ascoltare la narrazione dell’altro si accoglie l’insieme dei sentimenti provati, i conflitti che nascono, le scorie che lasciano, il male che rimane sotto forma di desiderio di vendetta, di rabbia, di anestesia corporea che è la cosa peggiore, perché la persona non sente più nulla, non c’è più un fuori e un dentro, ma unicamente uno spazio ambiguo che è la conseguenza dei reati», scandisce Ceretti. Che fa riferimento anche alla situazione della Colombia, dove ha lavorato formando mediatori per i processi previsti dagli accordi di pace del 2016, dopo una guerra civile di 52 anni che ha prodotto 8 milioni di morti. «Accordi che hanno puntato proprio sulla giustizia riparativa, perché bisogna fare qualcosa accanto al perdono, riumanizzando i volti e gli sguardi». Anche per superare quelle «recidive dei reati» che, specie nei giovani reclusi, derivano spesso da una incapacità di prendere altre strade, se non sostenuti da qualcuno che li guidi, nota de Bortoli, che osserva come la parola “Giustizia e con-dono” del titolo dell’incontro abbia una risonanza un poco negativa, considerato cosa sia il condono nella percezione della gente, mentre più felice sarebbe stato utilizzare “Giustizia per-dono”.

Abbattere i muri

Come si rende evidente nella testimonianza commossa di suor Nelly, inviata cappellano in un carcere a Santiago 18 anni fa, dove sono recluse 2000 donne in un luogo pensato per 600. «Appena arrivata – racconta – le ho ascoltate, ho chiesto le loro storie e quando le ho conosciute, storie di maltrattamenti e abusi sessuali, ho pensato di non potere parlare loro di Dio se prima non si fossero sentite amate, riconoscendosi vittime di un sistema ingiusto.

Con un sacerdote ho creato la Fondazione “Donna, alzati”, che si basa su 4 pilastri: la misericordia, l’accoglienza, il perdono e la restaurazione di donne che si sentano anzitutto amate da se stesse e da Dio. Con la visita di papa Francesco in Cile queste donne invisibili, nascoste dietro i muri altissimi del penitenziario sono state viste e, durante la pandemia, sono andata io stessa a vivere in carcere, sperimentando che cosa significhi essere privata della libertà, ma è stata per me la maggiore ricchezza», ricorda la religiosa che viene raggiunta da Paola, reclusa per 5 anni, oggi tornata a una vita serena. «Dio mi ha fatto una donna nuova, attraverso la Fondazione e, quando ho deciso di cambiare, le mie 4 figlie sono diventate a loro volta donne buone e cambiate» «Il sogno mio e della Fondazione – aggiunge suor Leòn – è che non ci siamo carceri femminili e che il Cile diventi un Paese giusto e di donne libere. Vi invito a essere coraggiosi e a dare battaglia per costruire leggi che non schiaccino la persona, ma la innalzino. Infine, la parola torna alla ministra Cartabia che evidenzia come «la riforma preveda centri di giustizia riparativa per ogni Corte di appello. Anche se sono realtà già ampiamente esistenti, ne nasceranno altre al più presto perché serviranno pochi passaggi amministrativi. Ci sono vite dietro quelle alte mura, ci sono persone che rinascono. Il male esiste, fa male, non possiamo far finta di nulla, ma la giustizia riparativa cerca e va a rimuovere le radici profonde che hanno portato ai gesti di violenza».

di ANNAMARIA BRACCINI dal portale diocesano Chiesadimilano.it 
 
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