«Oggi celebriamo il farsi avanti dei messaggeri di pace. Come si potranno riconoscere questi uomini? Gli angeli della pace si riconoscono perché si rivolgono a tutti gli uomini e le donne che abitano in ogni parte della terra, che abitano questa nostra Chiesa dalle genti, pertanto non possono chiudersi nella cerchia degli amici, dei connazionali, di quelli che parlano la stessa lingua e condividono la stessa cultura». Nei giorni in cui a Milano si celebra il “Festival della Missione” con testimoni che arrivano da decine e decine di Paesi diversi, anche in Duomo si parla il linguaggio universale di coloro che dicono il loro sì, giungendo all’ultimo passo verso il sacerdozio.

15 i candidati al presbiterato 2023, di età compresa tra i 24 e 32 anni, che, per l’imposizione delle mani e la preghiera dell’Arcivescovo vengono infatti, ordinati diaconi in un Duomo gremito da parenti, amici, seminaristi, parrocchiani.
Con loro anche 14 giovani del Pontificio Istituto delle Missioni Estere – africani e dalle Indie – e uno della diocesi di Dinajpur in Bangladesh. Accanto al vescovo Mario concelebrano il rettore del Seminario, don Enrico Castagna, l’arciprete della Cattedrale, monsignor Gianatonio Borgonovo, il superiore generale e il rettore del Pime, i padri Ferruccio Brambillasca e Bonalumi; in altare maggiore i membri del Cem, i Canonici del Capitolo metropolitano pure concelebrano unitamente a un centinaio di altri sacerdoti che trovano posto nel transetto di San Giovanni Bono.
Dopo la chiamata per nome dei singoli ordinandi che pronunciano il loro “Eccomi”, l’omelia dell’Arcivescovo, in chiaro riferimento al motto della Classe, “Pace in terra agli uomini, che egli ama”, dal secondo capitolo del Vangelo di Luca, è un inno a chi sa ascoltare il gemito del mondo, facendosi angeli della pace.

Ascoltare il gemito del mondo

«Se ascoltate il mondo, forse percepite un sospiro, una specie di gemito, l’espressione di una spossatezza. Se ascoltate la vita, forse riconoscete i segni di una specie di stanchezza, di un sopravvivere segnato dal malumore, raccontato con il lamento, dipinto con il grigio», scandisce il vescovo Mario. «Se ascoltate la gente, quella che prende sul serio le proprie responsabilità, forse percepite la fierezza del lavoro benfatto, del sostentamento per tirare grandi i figli senza risparmiarsi la fatica e insieme una specie di frustrazione malinconica». E ancora: «Se respirate l’aria che tira, forse avvertire una specie di esasperazione, una rabbia che vorrebbe gridare basta, un’insofferenza che si intensifica a ogni notizia di malattie diffuse, di guerre incomprensibili, di tragedie impensabili, di violenze spaventose». Eppure, proprio come nella pagina di Luca compaiono gli angeli che portano ai pastori l’annuncio sconcertante, “troverete un bambino”, così anche oggi si può continuare a portare questo stesso annuncio.

Essere messaggeri di pace

E, allora, come riconoscere gli angeli della pace, annunciatori di un mondo diverso, come possono e devono essere coloro che camminano sulla via della vocazione sacerdotale? Chiara la risposta. «Non si riconoscono per un abito, anche se è bene che portino l’abito che devono portare. Non si riconoscono per un potere, come se ricevendo l’ordinazione diventassero titolari di un incarico che richiede alla gente di servirli e riverirli. Gli angeli della pace si riconoscono perché sono stati inviati, per la loro obbedienza; perché non annunciano se stessi o qualche loro originale ricetta per risolvere i problemi della terra e del mondo. Sono guidati da una specie di scrupolo che li induce a vigilare sulla tentazione di attirare l’attenzione su di sé. Perciò amano essere servitori, si distinguono dalla tentazione diffusa di rendersi famosi per la loro visibilità, di frequentare i social, gli ambienti, i momenti clamorosi come se si potesse essere incisivi perché si parla di noi».

Messaggeri di pace, dunque, vigilanti e pieni di una gioia che «non è estraneità di fronte al gemito, alla frustrazione e alla rabbia, ma che dal profondo abisso della tribolazione del mondo continua a germogliare come speranza». Una speranza da annunciare a tutti, come testimonia l’Ordinazione dei futuri missionari del Pime e, comunque, di uomini provenienti da lontano e, con ogni probabilità, destinati a terre altrettanto lontane. «L’ordinazione dei candidati del Pime e di un candidato del Bangladesh incoraggia tutta la nostra Chiesa diocesana a una passione missionaria che non si lascia intimorire dalla persecuzione, dalla impopolarità che circonda la Chiesa, dall’impermeabilità di un terreno che sembra inaccessibile al dono. Per tutta l’umanità c’è un messaggio di pace. Questi candidati che si fanno avanti per l’ordinazione diaconale suggeriscono: “Se vuoi essere angelo della pace, fa’ come noi. Fatti avanti per farti mandare; accogli la gioia che viene dal profondo del dono di Dio; percorri la terra per raggiungere tutti e invitare tutti al compimento della vocazione dell’umanità: chiamata ad essere una fraternità di fratelli e sorelle». Poi, i gesti della Liturgia dell’Ordinazione diaconale, con gli impegni degli Eletti e il “Sì, lo voglio”, le Litanie dei Santi, cantate prostrati a terra in altare maggiore, l’Imposizione delle mani nel silenzio della Cattedrale e la preghiera di Ordinazione, la vestizione degli abiti diaconali e la consegna del libro dei Vangeli. E, prima dell’applauso che suggella la gioia all’interno della Cattedrale e all’esterno (con un tifo da stadio), il “grazie” agli ormai Diaconi, alle famiglie, al Seminario e alle Comunità che li accolgono con l’augurio dell’Arcivescovo di «conservare lo spirito diaconale per tutta la vita».

di ANNAMARIA BRACCINI dal portale della Diocesi Chiesadimilano.it 
 
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